I mulini a vento

Oggi Margherita è stanca. Di una spossatezza del cuore, più che fisica. Sta combattendo una battaglia contro i mulini a vento e lo sa. Non si abbatte, ma ogni tanto lo sconforto ci sta.

Perché i mulini a vento non sono quelli che dovrebbero. Non sono le dipendenze, le sostanze, la diffidenza dei pazienti (“pazienti, non utenti: sono persone che soffrono di una malattia” dice sempre), le strategie da attuare, i rischi da prendersi. Sono l’organizzazione, la struttura, il sistema. Il suo datore di lavoro. Stare sul fronte, in trincea, ogni giorno, ma doversi anche guardare le spalle, temere che i superiori non abbiano nessuna attenzione per la disposizione delle truppe, nessuna capacità di prendere posizione o decisione su come procedere. Un “mercato della cura” senza controllo di qualità, un servizio che viene fornito per arginare la marginalità, non qualcosa che davvero abbia lo scopo di cambiare le cose.

Un giro economico impressionante, che ha come unico traguardo il ritorno in voti di quanto elargito.

Margherita ha riorganizzato il servizio, in questi anni: ha cercato di umanizzare la logica con cui le persone vengono accolte, separando i cronici di una certa età dai giovani, con orari differenti, ingressi alternativi, personale dedicato. Perché se ti fai a diciotto anni non è una buona prospettiva, quella di trovarti di fronte a un possibile te stesso sfatto a quaranta. Perché hai bisogno di credere che ce la farai, che smetterai, che è possibile. Hai bisogno di speranza, una cosa così fragile che è bene farla camminare per percorsi dedicati, e non mescolata a tutto il resto. Margherita ha costruito un gruppo di lavoro composito e completo, facendo leva sul suo carisma e sulla sua passione. Non è cosa da poco: spesso le persone impiegate in questo tipo di servizi agisce per singole tessere, occupandosi solo del proprio compito senza relazionarsi con gli altri, senza creare una vera rete di collaborazione. È orgogliosa dei risultati ottenuti, ma anche stremata dalla fatica, quei giorni in cui pare non portare a niente. Anche a questo servirebbe la rete di collaborazione: a non lasciare nessuno solo davanti al compito ciclopico che deve affrontare quotidianamente.

E invece troppo spesso i cambiamenti strutturali che Margherita porta avanti non sono sostenuti da una cultura comune, da un sistema compatto. Gli ordini di scuderia non sono omogenei e la lasciano troppo spesso sola.
A ricucire le proprie, di ferite di battaglia, oltre che quelle degli altri.

Marketing

Per chi è nato negli anni settanta, l’eroina è la grande paura.

Prima della bomba atomica, prima dell’AIDS, era l’eroina il vero uomo nero, quello che i genitori insegnavano a temere.
Dopo la sbornia di droghe dei fricchettoni, gli abusi di ogni genere di sostanza in modo più o meno ideologico degli anni sessanta, nel decennio successivo abbiamo dovuto a fare i conti con i giovani che cadevano a manciate sotto la falce della droga.
Christiane F., sceneggiati in tv, immagini sparse di una realtà sussurrata e scandalosa, inquietante e sporca. Il tossico era quello che finiva male, per la strada, solo, con un aspetto raccapricciante. Che si abbassava a qualunque tipo di violenza e abbrutimento per procurarsi la roba. Rappresentava, per certi versi, la summa delle angosce umane. La degradazione, la perdita del controllo, l’orrore del nulla.
È innegabile che il grande impegno non solo nel creare paura ma soprattutto nell’informare sui rischi della droga con sportelli, campagne, opuscoli e lezioni nelle scuole abbiano sensibilmente ridotto la portata del fenomeno; con i radiosi anni ottanta e l’edonismo reaganiano abbiamo un po’ annacquato le paure edulcorando tutto quel buio nelle fantasie colorate di Naj Oleari e nel trucco pesante delle popstar.
Ma l’industria della droga è un sistema economico molto forte e non si lascia sbaragliare facilmente. Secondo precise strategie di marketing, il panorama della distribuzione si è
modificato, ha accordato i suoni e ha ripreso a vendere, comunque.

Mi spiega Margherita che dopo la cocaina degli anni Novanta, dopo l’ondata delle droghe sintetiche eccitanti che faceva quasi figo usare, c’è ora un ritorno all’eroina. “Soprattutto tra i più giovani: ci si avvicinano con un’incosapevolezza disarmante, senza avere la minima idea della gravità del passo che stanno per compiere. C’è una sorta di analfabetismo di ritorno rispetto a questo genere di droghe che fa sinceramente impressione. A questo va aggiunto che chi vende ha abbassato drammaticamente il prezzo, e lo smercio avviene in pezzi molto piccoli, così che con pochi euro puoi farti. Ma la cosa più furba è che all’inizio non te la inietti, la fumi. Questo non ti fa sentire un tossicone da strada. Ti da la sensazione che sia un’esperienza transitoria, come altre, perfettamente controllabile. Ma l’eroina non la controlli mai. Ti prende subito. È il miglior fidelizzatore che ci sia sul mercato”.

Studenti normali, adolescenti e giovani di famiglie qualunque. Che, semplicemente, non sono consapevoli del pericolo. Per loro non ci sono le implicazioni sociali, la scelta, la rabbia, l’ideologia, il salto. È piuttosto uno scivolarci dentro senza rendersene conto. È fumare l’ennesima sostanza, un po’ più forte, l’arrivo di un percorso di sperimentazione cominciato anni prima.

Sperimentazione: una parola bellissima dai contorni tragici. Soprattutto se sei solo.

“I genitori non si rendono conto. Spesso anche quando ci sono non vivono il figlio diciottenne eroinomane come una tragedia. Un tempo si spaventavano. Fermavano tutto, volevano entrare nel problema, con tutto il carico di paura che comportava. Ora sembrano non rendersi conto. Non hanno tempo. Dopo qualche minuto di attesa sollecitano la conclusione, perché devono andare a lavorare”.

Ci sono aree di smercio ben precise, verso cui i ragazzi si dirigono costantemente, facilmente individuabili. Vere e proprie promenade della droga, dove si acquista con una semplicità impressionante. Nessun sotterfugio, nemmeno il pellegrinaggio delle sentinelle, che serve da barriera di sicurezza e che, evidentemente, significa che esiste il pericolo di un controllo. Qui, il controllo non esiste. I ragazzi si mettono in fila alla luce del sole, contrattano e se ne vanno con i loro acquisti.

Normalizzazione dell’accesso. Marketing strategico. Vuoto relazionale. Economia.

Eroina, grande madre

Simone ha meno di un quarto di secolo; è intelligente, colta, bellissima. Ed eroinomane da cinque anni. Ha cominciato presto con il fumo, poi le pasticche, poi roba sempre più pesante fino al primo buco. Niente di squallido nella sua vita, nessun dramma devastante. Una famiglia benestante, una situazione apparentemente tranquilla. Eppure è successo: per noncuranza, per curiosità, per banalità.

“Simone è uno dei calici di cristallo più pregiati che abbia incontrato” mi spiega Margherita. “Non ha vissuto gli aspetti più brutali della tossicodipendenza: ha sempre avuto la possibilità di farsi senza problemi. Ha studiato, portato avanti la sua vita senza che nessuno si accorgesse di quello che le stava succedendo. O non succedendo: l’eroina ti toglie la vita.”

Quando cominci è sempre un casino, ma quando lo fai con disattenzione, senza quasi accorgertene, è un vero rebus arrivare alla domanda fondamentale: perché. Poco per volta l’eroina ti avvolge nel suo torpore, ti regala un distacco confortevole. Ti protegge, rendendoti  impermeabile alle emozioni, al mondo. A te stessa.

“L’eroina è una grande madre. Ti conforta, toglie ogni paura, ogni preoccupazione. Diventi un mostro: non in senso estetico, ma come persona. Poni un muro tra te e l’esterno. Quando ti fai stai bene e se come Simone non hai problemi a procurarti la roba, il nostro lavoro qui diventa ancora più paradossale, perché devi togliere a una persona qualcosa che percepisce come positivo – non un male, come i dottori fanno abitualmente.”

Simone colpisce, in molti modi. Non è una tossica di strada, non ha nessuno di quei tratti brutali che colpiscono l’immaginario e ti fanno fare un passo indietro di fronte agli stupefacenti. Proprio per questo la sua storia pungola più a fondo. Perché quando spiega perché ha voluto smettere, quando apparentemente tutto poteva quasi funzionare, ti spiazza.

Margherita le ha chiesto di farlo per due ragazze molto giovani che sembrano incamminate verso il suo stesso percorso. E lei ha spiegato loro:

“Non vi parlerò di come l’eroina vi distrugge fisicamente, dei denti che cadono, della pelle orribile, della devastazione fisica. Il vero problema è che l’eroina vive per voi. Mangia l’anima. Ho vissuto senza sapere chi fossi, perché lei agiva per me. E ora ho ancora tutto da costruire. Ho bisogno di sapere chi sono, cosa voglio, perché. Ho bisogno di vivere, di essere me stessa.”

Una questione interna, fatta di essere, di senso della vita.

Simone è a buon punto sulla strada della cura. Non tanto quella fisica, la più facile per certi versi, ma soprattutto quella psicologica. Con l’aiuto di Margherita – che l’ha seguita con un’attenzione quotidiana, con sms e whatsapp, senza mai staccare, ma soprattutto guardandola dritta negli occhi – ha ristabilito punti di riferimento, imparato le tecniche per mettere a fuoco sensazioni ed emozioni, e soprattutto per tenere a bada il craving, il desiderio subdolo e straziante di roba, quella sensazione che ti pervade e ti scava dentro fino a farti cedere. Il percorso non è stato semplice, ci sono state ricadute, tensioni, ipotesi di strade alternative.

E soprattutto, Simone dovrà rimanere per sempre vigile. Perché niente è definitivo, con le dipendenze.

Dice Margherita “Le persone che ce la fanno dovranno comunque sempre essere presenti a se stesse. Ascoltarsi, controllarsi. Ma questo fa di loro persone speciali: chi ha affrontato un problema è più forte di prima. È una persona migliore”.

Appunti, archivi, numeri

Il SerT è ospitato nel presidio sanitario locale, un brutto edificio anni sessanta, di quelli un po’ squallidi che lo Stato riserva a quelle pratiche fastidiose a cui cerchiamo di pensare il meno possibile.

Vecchi, disabili, malati, tossici.

Grandi corridoi poco funzionali con finestre sempre sporche – che di fondi per un appalto come si deve a una società di pulizie non ce n’è mica tanti e quelli che vengono di solito devono fare tre piani in un’ora – e pavimenti orribili. L’arredamento è raccogliticcio, avanzi di avanzi, schedari tutti diversi, computer con sistemi prebellici, cartelli attaccati con lo scotch ormai ingiallito. Il numerino da prendere per fare la fila, come in macelleria.

Le stanze del SerT sono in uno spazio delimitato del presidio, quasi una riserva di caccia. Sono troppi i balordi che ci girano attorno: è necessario separare, arginare, delimitare. All’interno, gli operatori hanno cercato di fare miracoli per rendere l’ambiente più accogliente, un vaso di fiori, un manifesto allegro, cornici colorate alle pareti.
Dalla porta sfilano visi di ogni genere: giovani, adulti, minorenni, ragazze bionde, uomini dalla calvizie pronunciata. Alcuni hanno l’aria imbambolata, altri non diresti mai.
Le persone che passano da qui sono veramente tante. Siamo abituati a pensarle tutte uguali, numeri più vicini alla cronaca nera che alla nostra vita. Gli schedari a muro sono stracolmi di documenti. Ogni dossier, scritto a mano fitto fitto, è una persona vera, una storia, una famiglia – più o meno – una serie di relazioni. Un senso che meriterebbe una risposta, un universo intero. Margherita e i suoi colleghi, ogni giorno, guardano negli occhi questi universi, li aiutano a specchiarsi, a trovare quel senso oltre le parole appuntate nei documenti.

Poi ci sono gli archivi del seminterrato. Faldoni grandi, chiusi con il nastro tanto sono pieni, con scritto a pennarello, in caratteri cubitali:

DECEDUTI

Accompagnare giù l’operatrice e vederli, addossati a una parete in rigoroso ordine alfabetico, raggela. Deceduti a pacchi, che la storia del XX secolo avrebbe dovuto renderci quasi impermeabili ai grandi numeri, che è la vita questa cosa qua, che sul giornale leggiamo in continuazione di stragi e guerre. Che alla fine, non puoi farti impressionare, perché bisogna vivere.
Con le mie mani di carne e ossa e sangue, scorro i fascicoli e mi prendono i brividi a leggere le date di nascita. Le parole non sono mai state più vuote di quelle che riempiono le righe dei moduli prestampati. Sostanze, quando ha cominciato, quali quantità assunte. Bollette, richieste, domiciliazioni. Assistenti sociali, sostegni, firme di presenza.

Può una cosa così immensa come la vita finire dentro a un documento in questo modo? Un insieme di informazioni che non fanno un briciolo di essere umano, non spiegano il come e soprattutto il perché. Mi dico che in fondo quando entri in un cimitero non è molto diverso.
Eppure no.
Una lapide non pretende di spiegare niente. Rispetta la storia di ciascuno, lascia ai vivi il racconto, mobile e inafferrabile come una nuvola che si arriccia e si disfa veloce nel cielo, della storia di chi ci ha lasciato. Queste schede sono come la medicalizzazione di una gravidanza, come pretendere di raccontare la vertigine di un innamoramento. Sono arroganti, nella loro sterilità, ecco.

Per questo preferisco ascoltare Margherita. La memoria va conservata con cautela, in tutte le sfumature che solo un ricordo vivo può avere.

Margherita, esorcista laica

Si chiamano

eroina,
cocaina,
anfetamine,
alcool,
LSD,
ketamina,
benzodiazepine,
oppiacei,
ecstasy,

ma la lista sarebbe molto più lunga. Un nome per ogni demonio dell’inferno, una sostanza per ogni necessità, qb per sopportare.

Cosa? Dipende. Se stessi, principalmente.

Un’identità disallineata, una forma che non si incastra con gli spazi messi a disposizione da quel gioco infantile attorno al quale la nostra società ha organizzato lo schema della propria vita. Se sei stella, la piccola mano paffuta impara a sistemarti nello spazio a cinque punte. Se sei un cubo, nello spazio quadrato. Se sei un cilindro, zac, nel foro rotondo. C’è lo spazio per il triangolo, quello per il poligono. Ogni forma ha il suo spazio. Così i puzzle: pezzi sempre più piccoli, disegni sempre più complicati. Ma l’incastro è comunque preciso, il quadro finale perfetto. O il lego, un tempo costruzione libera: ora va montato secondo un ordine preciso, altrimenti non torna niente. E non ci inventi più forme strane, ma segui il libretto per riprodurre in dimensioni ridotte quello che gli occhi già vedono.

Non c’è spazio per l’irregolare. Impariamo da bambini a procedere secondo un ordine logico-matematico. Il concetto stesso di procedere appartiene a questo tipo di impostazione: non si tratta di aprirsi in tutte le direzioni, come un fiore quando stiracchia i propri petali verso l’esterno, come un mandala, come una stella che splende nello spazio, ma un partire da A per raggiungere B.

La linea retta, la rettitudine, la dirittura morale.

E se sei un pezzo capitato nel puzzle sbagliato? Se la tua forma non corrisponde a nessuno spazio? I demoni dell’inferno possono essere buoni amici.

Margherita ha i capelli scuri e gli occhi appassionati di chi ama il proprio lavoro. È un’esorcista laica: fa la psicologa in un SerT. Secondo la definizione di wikipedia  “I Servizi per le Tossicodipendenze sono i servizi pubblici del Sistema Sanitario Nazionale italiano dedicati alla cura, alla prevenzione e alla riabilitazione delle persone che hanno problemi conseguenti all’abuso e alla dipendenza di sostanze psicoattive come droghe, alcool o comportamenti compulsivi come il gioco d’azzardo patologico.” Margherita ascolta, accoglie, accomoda, affianca, costruisce percorsi, disegna strade, prende per mano, sistema cuscini. Inventa panorami fatti su misura: perché ciascuno ha diritto ad essere ciò che è.

“Ci sono persone come bicchieri di vetro, altre come calici di cristallo: non puoi metterli in tavola tutti i giorni. Sono preziosi, delicati, raffinati, vanno trattati con cura. Il mio lavoro è spiegare alle persone che tipo di recipiente sono, e aiutarle ad essere semplicemente se stesse, insegnando loro a valorizzare la bellezza di ciò che sono, indipendentemente dal tavolo su cui sono finite”.

Questo blog nasce per raccogliere le storie dei calici di cristallo e dei bicchieri di vetro che Margherita incontra tutti i giorni. Buona lettura.